arte roma

#Intervista: Silvia Struglia e il suono dell’istinto su tela

Oggi vi presentiamo Silvia Struglia, artista romana surreale e istintiva che dipinge seguendo il suo potente flusso di coscienza.

Intervista: Silvia Struglia e il suono dell’istinto su tela

Il linguaggio dello spirito Silvia Struglia prova a tradurlo nelle sue opere piene di follia, istinto e simboli, come un enorme flusso di coscienza che dalle mani passa sulla tela attraverso colori e immagini.

Silvia vuole che i segni abbiano “intenzione”, impronte piene di memorie con le quali racconta i frammenti di ciò che resta del sogno.

C’è sempre spontaneità e improvvisazione. C’è libertà. O quantomeno è quello a cui Silvia sta puntando durante il suo percorso artistico in piena evoluzione.

Quando ho saputo che c’era un’artista a Roma che dipingeva le canzoni dei Tool (non è che le ascolta mentre lavora: Silvia DIPINGE le canzoni) ho iniziato a seguirla nei suoi progetti, credendo ciecamente nelle sue visioni.

Oggi ve la presento un po’ più intimamente.

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Silvia Struglia

Mi racconti da dove nasce la storia artistica di Silvia? 

Non saprei rispondere con certezza. Forse comincia con me e si inizia a raccontare solo qualche anno fa.

La mia casa è sempre stata un ricettacolo di input di vario genere. C’è sempre stata la musica e ci sono sempre stati i colori.

Sin da piccola ho amato disegnare, matita e bic nera prevalentemente, tratteggio fino, chiaro-scuro insomma.

In Erasmus, in Spagna, ho scoperto la pittura.

Questo è certamente uno “spartiacque” che segna un “prima “ e un “dopo” nella mia vita. Qualcosa ha fatto “crash!”. 

L’incontro con la pittura è stato dirompente, come sentirsi vivi, al posto giusto e ritrovar-si.

Son stati mesi, quelli che seguirono, di esistenza e ricettività piene, in cui percepivo la realtà intorno a me in lampi, segni e campi cromatici, istintivamente, sintetizzando ogni contesto in cui mi trovassi.

 È stato un incontro che mi ha intimamente scossa, assieme a ciò che custodivo e c’era sempre stato. Potrei forse dire che qui ha iniziato ad affacciarsi la “mia storia”.

La pittura che ho praticato era in stile astratto e improntata sul cogliere i processi. Coreografie si susseguivano e bisognava bloccarle nel loro svilupparsi, nel loro dispiegarsi. Quadro ed “evento” avevano la stessa vita. 

Il segno doveva avere “intenzione” e non lo scorderò mai.

Dopo la laurea in Ingegneria edile-Architettura, esposi per la prima volta. E con pittori veri. Che facevano quello, insomma.

Sotto tesi mi ero iscritta al concorso Ginko Art Award 2016 (lo stesso concorso che avrei vinto l’anno successivo) senza parlarne a nessuno, quasi per gioco in realtà. Inviai 2 quadri che avevo realizzato a Madrid. Incredibilmente andò bene.

Era il 2016, un anno controverso, complesso e fondamentale, indubbiamente di rottura, di fine e di inizio.

Forse la mia “storia artistica” (per quanto risulti “strano” utilizzare quest’espressione) credo inizi da lì, dalle consapevolezze assunte in quel periodo della mia vita rispetto al mio passato e l’allora presente.

Parlami della tua arte: cosa ti piace proporre, soprattutto? C’è un messaggio sotteso universale in ogni tua opera?

Propongo storie.

Fotografie di storie. Istantanee.

Sono rimasta molto legata a quello che mi ha “accesa” in Erasmus anni fa ed è sorta l’idea di scattare la fotografia di un processo.

Propongo di soffermarsi sulla sensazione “ultima” di un’esperienza, sulla sua percezione e sintesi visiva della stessa. Propongo “ciò che resta”: impronte dense di memoria, dalle quali è possibile ricostruire tutto.

Con le mie “Papersongs” (dove la simultaneità tra canzone ascoltata e “rovesciata” su carta è essenziale a tutelare autenticità ed emotività del getto di colore) voglio regalare una visione della melodia ascoltata (visione ritmica, ma anche intima) rendendo osservabile ciò che convenzionalmente non lo è, pur sotto il filtro della mia percezione del brano.

Con i quadri “ad personam” invito a un rifugio.

Penso a essi come a dei cimeli che racchiudano del vissuto.

Oggetti che rievochino profumi, dialoghi, melodie.

La forza comunicativa di un getto di colore dipende dall’energia con cui è nato, dalla decisione con cui si è liberato unita alle percezioni del momento.

L’energia con cui nasce un segno può renderlo un tramite, un passaggio per dimensioni sonore, parole, realtà altre e più complesse.

Cosa distingue il tuo modo di esprimerti da quello di altri tuoi colleghi?

Non saprei cosa rispondere. Ognuno di noi ha la sua peculiare maniera di comunicare.

Forse l’estemporaneità e il buio in cui mi muovo. Credo che anche i miei colleghi, però, conoscano quella sensazione di “andare”, nel quadro, senza sapere talvolta “cosa si stia facendo” effettivamente.

C’è sempre della pura spontaneità e dell’improvvisazione in ciò che produco e un senso di libertà e autenticità assoluti, a cui miro con tutta me stessa.

Ognuno sceglie cosa dire. Io ho bisogno di vedere, sempre. Riassumere in un’immagine qualsiasi esperienza, di qualsiasi tipo sia.

Visualizzare la sensazione, la storia, quell’attimo lì. Sono una nostalgica in fondo…

È forse anche questo un tentativo di tenere presente ciò che passa nella vita, di collezionare ricordi complessi in maniera più semplice, costruire archivi di emozioni.

Al momento di cosa ti stai occupando?

Al momento sto maturando un nuovo filone nato proprio durante la quarantena.

È più materico e sperimentale, più strutturato e geometrico e, forse, anche più intimo.

Le componenti musicale e della simultaneità compositiva rimangono sempre, ma ho intenzione di dare forma e corpo ad alcune condizioni interiori, oltre che fotografare musica, danze e storie provenienti da “fuori”. Diciamo che ho voglia di narrare storie più esplicitamente “mie”.

Da quanti anni fai questo lavoro? E da allora com’è cambiato il tuo modo di intraprendere iniziative artistiche? 

Che mi dedico quasi esclusivamente a questo è più o meno un anno.

Che lo pratico parallelamente ad altro sono all’incirca 3.

Provengo da un settore un po’ diverso. Confido di riuscire a unire i campi prima o poi e, magari, esperire la progettualità in senso tout court.

Per quanto concerne il mio modo di intraprendere iniziative è sicuramente più disinvolto, mi “butto” maggiormente e sto acquisendo una fiducia superiore nelle mie idee, cercando di concretizzarle e condividendole.

Hai un pubblico-tipo?

Credo musicisti (per via delle “Papersongs”), ma anche architetti e designer potrebbero incuriosirsi al mio lavoro, dato che dai miei quadri trapelano indizi sulla mia formazione.

Una certa prepotenza geometrica, ad esempio, sta facendo capolino nella mia ultima serie di quadri, con maggiore veemenza e meno timore del solito, rimarcando punti di contatto con quei settori progettuali.

Ad ogni modo, sono opere che spaziano tra vari ambiti e contesti, per cui anche  teatranti, ballerini, scrittori o professionisti legati al mondo della scenografia e dello spettacolo. 

C’è una cosa che un artista non deve mai fare e un’altra invece che va sempre fatta?

Aver timore dell’ignoto.

Fidarsi e assecondare le visioni/intuizioni. Sempre.

L’emergenza Covid quanto ha inciso sul tuo lavoro? 

Discretamente, devo dire. 

Credo abbia avuto un impatto fondamentale su ognuno di noi in molteplici fronti. Credo, in ogni caso, che dai momenti di reale difficoltà possa sempre trarsi molto di buono: o ci si arrende o ci si sveglia.

Quello che sicuramente ha avuto ripercussioni sul mio lavoro è non poter sfuggire da certi pensieri e l’accumularsi di nuovi, più intimi e più universali.

Forti sono stati il senso di impotenza, solitudine ma anche di globalità e vicinanza.

Fortissima poi è stata la componente introspettiva, che mi ha portato a rovistare dentro di me ulteriormente e a tirare fuori idee nel cassetto da troppo tempo, spolverando energie passate quasi del tutto soppresse o conoscendone di nuove.

E ho imparato anche che lasciar andare il nostro nero a volte ha un potere salvifico. 

Quando lavoro “su di me” cerco di scattare una fotografia della condizione interiore. Mi son così trovata a “gettare” geologie private, sommerse e spinte incredibilmente personali.

C’è stato un ritorno e un rinnovo, è riemerso il lavoro “a mano” (di matita) e ho iniziato a contaminare, provando tecniche nuove e unendole all’esigenza di matericità che sentivo di dover conferire alle nuove opere, legate spesso al concetto di squarcio e di scontro, di chiusura e di varco, tra visioni occultate e orizzonti.

Si è trattato quasi di maieutica, volta a sviscerare verità.

Parlami delle iniziative che hai in mente per i prossimi mesi

Ho intenzione di proseguire sul filone delle “Papersongs”, col desiderio di eseguirle anche dal vivo o assistendo a spettacoli più complessi che comprendano musica danze e recitazione.

Unitamente, continuerò a collaborare con musicisti per le loro “copertine”, realizzandole sulle  loro melodie (come ho fatto per “Mirrors”, prezioso progetto di Roberto Fasciani e Riccardo Rocchi).

In parallelo, voglio sviluppare questo filone più “intestino”, legato alla mia sfera personale e supportato da sperimentazioni di tecnica e materia, cui accennavo prima.

Ultimo non ultimo promuoverò il progetto “Raccontami una storia”, cui accennavo prima, più sociale e psicologico.

Si tratta di “quadri dedicati”, realizzati su commissione, che nascono da testimonianze reali, di persone che mi regalano frammenti di vita su cui poter realizzare la mia percezione astratta.

Qui, al destinatario, voglio rivolgere un rifugio in sé stessi, un luogo familiare dove sentirsi protetti, una casetta di legno dove lasciamo le nostre paure e i nostri bagliori e dove potersi ri-conoscere.

È ancora una volta sintetizzare visivamente, ma in questo caso, delle persone.

Dimmi un progetto artistico di cui vai particolarmente fiera

Beh, sicuramente “Favole piccole e foglie di vernice”, un progetto non mio, in realtà.

Si parla del libro di mio fratello Mario, che mi ha coinvolta per la realizzazione delle “foglie di vernice”: mi sono state inviate le registrazioni delle storie (interpretate dall’attore Francesco Wolf, fondamentale contributo) e ho realizzato i quadri ascoltandole in cuffia.

È stato un esperimento che mi ha permesso di mettere in atto davvero l’“istantanea di una storia”.

Il testo della favola doveva essere la matrice, il quadro l’impronta. Nel libro, alle “favole piccole” si alternano le altre a colori, dove la ”sceneggiatura” scompare e rimane la visione a narrare.

Mi descriveresti il lavoro artistico di Silvia Struglia con un’immagine e con 3 parole? 

un flash / un lampo di luce istantaneo, improvviso, che ti lascia solo l’impressione di aver visto qualcosa muoversi, così lo puoi immaginare. 

Superficie

Abisso

Splash

The Parallel Vision ⚭ _ Paolo Gresta)

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