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Molti lo avvicinarono a Cortázar, altri a Mario Vargas Ilosa, alcuni critici intravedevano in lui e nella sua scrittura l’influenza della poesia di Márquez o di Neruda. Ma Bolaño a parere mio era distante da tutti loro, scrittori che comunque sia aveva letto e amato moltissimo (soprattutto Cortázar), ma ciò non basta.
Sulla soglia dei quarant’anni, un male incurabile al fegato.
Nel frattempo nascevano Lautaro e Alexandra, i suoi due figli ai quali dedicherà i suoi libri.
Roberto Bolaño muore improvvisamente in una giornata caldissima nel luglio del 2003.
Al funerale c’erano i suoi amici, non gli scrittori famosi, ma gli amici dei bar della barceloneta, delle librerie del barrio Gotico. C’era sua moglie, la compagna di sempre.
Se ne è andato con la coerenza che solo certi uomini possono capire, se n’é andato con tutti i suoi dolori, portandosi con sé i giorni felici e le camminate lunghissime, i viaggi e i discorsi interminabili sul niente che più di tutto affascina l’essere umano.
E a pensarci adesso la vita di Bolaño può essere vista esattamente come quella dei protagonisti dei suoi libri: “Il viaggio di un uomo che fu felice e disperato, ma che non conobbe mai la noia”.
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