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#Intervista: De Lipsis, “La persona viene prima dell’attrice”

#Intervista: Flavia De Lipsis, “La persona viene prima dell’attrice”

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Flavia G. De Lipsis

Flavia Germana De Lipsis è assieme a Pietro Dattola una delle anime di Inventaria, la Festa del Teatro Off che ormai da tanti anni getta luce su situazioni teatrali che lavorano con inventiva e autonomia, fuori dai circuiti tradizionali.

Impegnata al momento con nuovi progetti in studio, l’organizzazione del prossimo festival e con le nuove classi laboratoriali, Flavia mi ha raccontato dell'”amore per una cosa misteriosa che mi svuotava e mi riempiva contemporaneamente“.

Ovvero il suo incontro con il teatro, avvenuto da piccola.

Un amore che è letteralmente “questione di vita o di morte” e che le ha fatto comprendere come esista innanzitutto la persona, prima dell’attrice, perché “la persona è un serbatoio determinante per mettere a fuoco la propria qualità e non va dimenticato“.


Mi racconti da dove nasce la storia artistica di Flavia? 

È la storia di un amore, probabilmente il primo.

Perciò è un innamoramento matto, cocciuto, fortissimo, che mi frantuma il cuore: il teatro tiene insieme i pezzi.

Amore per una cosa misteriosa che mi svuotava e mi riempiva contemporaneamente, facendomi sentire più viva di quanto mai avrei creduto di essere.

Lo faceva quando ero piccola, continua a farlo adesso.

È una questione di vita o di morte. “Tutto” qui.

Da quanti anni fai questo lavoro? E da allora com’è cambiato il tuo modo di intraprendere iniziative artistiche?

Penso di fare questo lavoro da troppi pochi anni rispetto a quelli necessari per capirlo (ammesso che esista una soglia di consapevolezza in questo senso).

È inevitabile che viaggiando succedano cambiamenti, mi stupirei fino alla preoccupazione del contrario.

Mutano punti di vista, obiettivi, rapporti con i testi, con i colleghi, con te stessa, fonti di ispirazione, moventi dello stare in scena.

Si modificano le priorità, artistiche e umane.

Sicuramente il lavoro raddoppia, si stratifica, si approfondisce.

Ogni volta è una nuova volta e le forze per darle vita sono sempre maggiori, più specifiche e nitide.

Diciamo che guardando al salto da compiere, oggi rispetto a ieri, prendo le misure e la rincorsa da molto prima. E verosimilmente meglio.

Domanda retorica (forse): l’emergenza Covid quanto ha inciso sulla tua attività?

L’emergenza Covid ha inciso molto sulla mia attività e su quella del settore spettacolo-dal-vivo.

Una frattura che ha evidenziato tantissimi problemi pre-esistenti, acuendoli e rendendoli talmente lampanti da non poterli digerire più.

Tra la precarietà, l’assenza di tutela e la depressione lavorativa (e non solo) diffusesi, la cosa che più mi ha colpito è stata lo s-ragionamento collettivo.

Che, tranne in casi più unici che rari, ha determinato mancanza di solidarietà, di empatia, di visione costruttiva, di invenzione, spesso di basilare comprendonio.

Al contrario si è generato accanimento, panico alla lunga non giustificabile, diffidenza cronica, aggressività, una guerra allarmante e priva di senso di poveri contro poveri, giusti contro ingiusti, maggioranza contro minoranza.

È accaduto in ogni categoria sociale. Nella mia, ovviamente, l’ho notato di più, forse perché me l’aspettavo di meno.

Quella teatrale è una comunità che, fino al 2019, credevo essere umanista, anche solo per il fatto di aver scelto questa professione. Credevo. 

Ritengo poi che tale consapevolezza sia collegata, almeno per me, a un dilemma, più profondo e generale, sul fatto che chi stimiamo artisticamente non è detto valga la stessa stima umanamente.

E quando si fa questo lavoro, forse, bisognerebbe sapere se, passatemi la metafora, si sta interagendo con un capitano o con un mozzo, perché la tempesta può essere dietro l’angolo.

Inoltre viste le fragilità umane enfatizzate dal Covid, diventa ormai cruciale ciò che oggi decidiamo di portare in scena.

In una situazione di pandemia, guerra e crisi alimentare/energetica/climatica, di cosa vogliamo parlare sul palco? Cronache dal presente hanno senso? Hanno davvero cognizione di causa?

O forse è meglio ragionare su cronache dal futuro? E in caso, quale futuro? Non c’è una formula risolutiva, sono domande aperte.

A cui però bisogna dare una risposta certa e onesta prima di entrare in scena, che legittimi a occupare tempo e spazio definiti.

A richiedere l’attenzione di un pubblico provato da questi anni almeno quanto noi e a mantenerla per merito vero, non per abitudine, per sentito dire, per conformità ai gusti della maggioranza.

Perciò diciamo che se prima si saliva sul palco con una convinzione, un sentimento, una motivazione molto forti, ora si deve salire sul palco con un’urgenza.

Qualunque tipo di urgenza, ma non meno che urgenza.

Raccontami di Inventaria, una creatura a cui hai dato forma assieme a Pietro Dattola diversi anni fa. Di cosa si tratta esattamente?

Inventaria, ossia la Festa del Teatro Off, nasce dall’esigenza di conoscere noi e far conoscere al pubblico realtà teatrali che operino con lode e fatica economica fuori da circoli, conoscenze, appoggi politici o accademici.

Per attivare insieme una rete virtuosa.

Il teatro è, ahimè, una nicchia. L’accesso al suo mondo e alle sue dinamiche anche.

Per chi non rientra nei bilancini istituzionali o nei potentati di famiglie, clan televisivi, amici-di-amici, ossia per i tre quarti della popolazione artistica attiva, rendersi visibile e svolgere il proprio lavoro può diventare un’utopia.

Inventaria ha lo scopo di gettare luce su queste situazioni teatrali che lavorano con inventiva e autonomia, fuori dai circuiti tradizionali.

Realtà off, ristrette nelle economie e negli spazi occupati.

Noi promuoviamo e mettiamo in contatto.

Il festival si svolge a Roma, ma ha respiro nazionale.

Col suo fortunato lavoro di scouting, ispirato da una sistematica eterogeneità delle offerte, oltre che dal valore della proposta, portiamo nella Capitale e contemporaneamente all’attenzione dei teatri partner, artisti provenienti da tutto lo stivale.

Facendo cambiare aria al panorama teatrale capitolino, spesso asfittico.

Fino ad ora ci stiamo riuscendo.

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Parlami delle iniziative che hai in mente per i prossimi mesi

Al momento sono in studio con un nuovo progetto e in fase organizzativa per la realizzazione della prossima edizione del Festival a maggio 2023, che necessita di un enorme lavoro preparatorio sia prima di esistere come bando, sia una volta terminato.

Dovremo riprendere alcuni spettacoli di repertorio, con repliche dentro e fuori Roma.

E stiamo formando le nuove classi laboratoriali per adulti e bambini del corso “Se fai teatro si vede”, che guido insieme a Pietro Dattola.

Dimmi un progetto artistico di cui vai particolarmente fiera

Sono tanti i progetti attraversati e che ringrazio per diversi motivi.

Spesso mi hanno fatto capire molto sul mio lavoro, su me stessa, sulle altre persone e sul mondo in generale.

Preferisco dire che il progetto artistico di cui vado più fiera è sempre il prossimo, quello da intraprendere, quello di cui non riesco ancora a parlare.

Quello rispetto al quale sono in una posizione vincente perché ho tutto da imparare.

C’è una cosa che un’attrice non deve mai fare e un’altra invece che va sempre fatta?

Risposta difficile. Ad esempio c’è la qualità.

Un’attrice deve sempre avere una qualità sua, propria, intima, che la renda unica.

Deve sforzarsi di capire cosa ha lei che altre non hanno, deve esserne consapevole, accettarla e utilizzarla.

Ci può volere moltissimo tempo per trovarla, ma una volta individuata si può diventare l’anello mancante della scena.

Per capire quale sia la propria qualità, un’attrice non deve mai smettere di essere una persona, vivendo a 360 gradi tutto quello che c’è da vivere.

Interessandosi di altro rispetto a ciò che è attoriale, rielaborando e trasformando quello da cui viene giornalmente investita.

Esiste la persona prima dell’attrice: la persona è un serbatoio determinante per mettere a fuoco la propria qualità e non va dimenticato.

Teatri e cinema sono rimasti chiusi praticamente per tutta la durata dell’emergenza pandemica e sono stati gli ultimi luoghi culturali ad aver riaperto. La cultura è davvero “non necessaria”?

La cultura sarà davvero “non necessaria” finché “la cultura non diventerà cultura”.

Ossia finché la cultura non sia essa stessa oggetto di culto, di apprendistato, di programmazione, di istituzionalizzazione.

Se non si educa alla cultura come fatto normale, di ordinaria amministrazione e primaria necessità quotidiana, fare cultura continuerà a essere visto come privilegio, romanticheria, astrazione.

Invece deve essere una costante non negoziabile della vita giornaliera.

Storia del teatro, del cinema, della musica, della danza, della pittura, di tutte le arti, di vecchia e nuova generazione, con tanto di esercitazioni pratiche e lavorative.

Tutto questo deve diventare bagaglio individuale obbligatorio come la carta d’identità, l’algebra, Manzoni, Pertini e i confini della Francia.

Così nell’emergenza in cui ormai sembriamo vivere costantemente non sarà la cultura la prima a sacrificarsi.

Mi descriveresti il lavoro artistico di Flavia De Lipsis con un’immagine e con 3 parole?

Prendi un bambino piccolo, solo e ammalato, portalo per la prima volta in vita sua al parco giochi e stai a guardare. 

Questa è l’immagine. 

Le 3 parole, invece, forse non sono esattamente 3, ma sono compatibili con queste: farei qualunque cosa pur di essere me senza essere me. 

The Parallel Vision ⚭ _ Paolo Gresta)

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