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Giusto in tempo per il Rock: 24 agosto 1975

Giusto in tempo per il Rock: 24 agosto 1975

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Se vivi in Galles ed è estate, e non hai altro da fare – tipo incidere un album che resterà tra i migliori al mondo di sempre – puoi villeggiare a Cardiff.

Tra la baia di Bristol e la foce del fiume Taff, uno dei più grandi e ospitali di tutto il Regno Unito, esiste questa cittadina dedita a cultura medioevale e turismo d’avanguardia in cui puoi teneramente immergerti grazie al clima che non spergiura mai oltre i 20°C.

Sul porticciolo puoi anche gustare del pane, lo chiamano bara brith, indispensabile se non mangi da 14 giorni tanto è carico di intrugli, e ricordarti, mentre afferri il mare sorseggiando una birra gallese, che il 24 agosto del 1975 non troppo lontano da lì, a Monmouth precisamente, qualcuno (moltiplicato per 4) incideva la storia della musica in un unico singolo di LP. 

Gli Angeli e i Demoni di “Bohemian Rhapsody”

È quel giorno, infatti, che i Queen, spronati dal nuovo manager John Reid, a 45 chilometri dalla dolce, placida, turistica Cardiff nei mitici Rockfield Studio’s sfidano le regole del brodcasting a suon di rock progressivo con in corpo tutto il resto della musica già scritta e messa a testa in giù.

La Regina adesso è pronta per essere incoronata e a partire da quel giorno inizia a incidere il brano che più di qualsiasi altro può far comprendere il senso intrinseco di questo quartetto.

6 grandiosi minuti intitolati “Bohemian Rhapsody” di un’opera complessa, macchinosa, pasticciata di cui la musica è soltanto dio.

Un dio non lontano dagli altri e che, come gli altri, si serve di angeli ma soprattuto di demoni per impersonare al meglio il bene.

Ma chi erano i Queen di quell’anno? Chi erano esattamente i Queen il 24 agosto 1975?

Non solo ragazzi inglesi baciati dalla fortuna o perditempo votati alla musica da esibizionismo.

I Queen erano un gruppo di 4 musicisti resi celebri da quel nuovo che avanza, dall’idea di essere qualcosa di originale, di fresco e polifonico.

Un’idea ben riuscita e ben piazzata come sanno dimostrare le vendite dei 3 precedenti album. Erano questo i Queen di quel giorno, ed erano – strano a dirsi – al lastrico (“I’m just a poor boy, I need no sympathy“), totalmente privi di denaro da investire nei progetti che tanto desideravano realizzare: quelli del salto in alto.

Ma non rischiate“, gli dissero da più voci, “o vi ritroverete a terra“.

Invece rischiarono se non altro perché non c’era nulla da perdere.

Anzi osarono mischiando voci e costringendo il racconto di una vita intera – qualunque vita – in circa 6 minuti di musica e parole mai davvero comprese.

Con “Bohemian Rhapsody” i Queen realizzarono l’enciclopedia che mancava, il vademecum per alzarsi la mattina e compiere una giornata.

Osare in quel modo, provocando lo schema infrangibile delle trasmissioni radiofoniche, le loro scalette, pur vivendo uno stato di completa sicurezza, al netto di risorse economiche, che per gli artisti rappresentano soprattutto la possibilità di avere un’altra possibilità, era una cosa da pazzi.

Una cosa che solo uno come Mercury, detto Freddie, in origine Farrokh Bulsara, ossia la regina parsi di questo ancien régime, poteva pensare e di fatto concretizzare (“Is this the real life? Is this just fantasy?“).

Come spingere altrove la storia della musica

La strada era così per quelli come lui: o la imboccavi per annientarla o la annientavi per imboccarla (“Mama, just killed a man, Put a gun against his head, Pulled my trigger, now he’s dead“).

In ogni caso l’avresti percorsa, in un modo completamente diverso dal resto che fa musica, lontano da quel misero e analfabeta punk inglese, ad esempio, fatto di spilloni e ciuffi blu, che si ostina a elemosinare proseliti per le strade sudice e malconce.

Pivelli. Sciocchi.

Freddie, al contrario, è maestoso, temerariamente nobile, ne dà continuamente prova.

Soffre di gigantismo in chiave musicale (“«Beelzebub has a devil put aside for me, for me, for me“).

La sua voce è voluttà, oltre a essere baritono. E il suo vibrato è così lesto da sconvolgere i piani, gli assetti, da far rivolgere l’udito unicamente a ciò che è, a come si espone.

Per non parlare poi della  ginnastica da teatro, delle movenze vanitose ammollate nel frizzantino glam e delle manie di un individuo che vuole mostrarsi per ciò che è in grado di sperimentare su di sé, sulle sue molteplici e variopinte identità.

Freddie prende la voce a Rockfield Studio’s di Monmouth quel 24 agosto 1975 e canta.

Canta per sovrastrutture, per composizioni. Per diagrammi complessi e sommersi. Per sillogismi e strategie. Cita ma con stile.

Non fuma, non beve Vodka, non si droga, quel giorno. Non ama.

Freddie canta o, forse, ama (“Let me go! Will not let you go. Let me go!“). Canta – questo è certo – e interpreta “Bohemian Rhapsody”, un brano, un’operetta al completo che nei suoi piani nasceva con lo scopo di spingere la storia della musica tutta verso un’altra direzione.

E l’avrebbe fatto senz’altro, non troppo tempo dopo, insieme ai suoi compagni fraterni da 700 concerti, il chitarrista Brian May, il batterista Roger Taylor e al basso John Deacon.

La Regina in cima alla classifica

Quel giorno le incisioni di “A night at the Opera“, quarto album dei Queen, cominciarono ma non finirono: la Regina comprese che il progetto “Bohemian Rhapsody” aveva bisogno di più tempo, di maggiore attenzione, di tutte le aspettative che merita una scoperta così grande.

Così la squadra al completo impiegò una settimana solo per le registrazioni vocali e altre 2 successive per le sezioni strumentali.

Il lavoro che ne uscì fu mastodontico.

Nessuna trasmissione radiofonica avrebbe fatto passare un brano del genere. 6 minuti di musica erano fuori da ogni consuetudine, erano follia, ecco cosa (“So you think you can love me and leave me to die?“).

Ma gli amici non sono amici a caso, lo sono per un motivo ben preciso, e quello del dj Kenny Everett, amico di Freddie, era il motivo più bello al mondo: spingere i Queen, farli volare, permettergli quel salto in alto trasmettendo in radio (non una qualunque, ma Radio Capital London) per 14 volte in un solo giorno il brano-consacrazione della loro carriera.

Era ottobre, il 31, a 2 mesi dalla sua incisione, quando “Bohemian Rhapsody” scalò la classifica, si sedette sulla cima e salutò per sempre “Mamma mia” degli Abba che fino a quel momento deteneva – senza alcun ritegno – lo scettro.

Bohemian Rhapsody” è il primo esempio di come il successo possa provenire dal “basso” e dettare le regole del gioco.

Cosa che succede oggi grazie all’accessibilità pubblica (mondiale, megagalattica) donata da You Tube e compagnia cantante riservata a chiunque ne abbia accesso. Non a tutti.

La storia racconta che da quel giorno anche il gigante EMI si inginocchiò davanti a Sua Maestà Queen, le baciò mani e piedi e convertì la presenza del gruppo e della loro “Bohemian Rhapsody” in un videoclip, uno dei primi della storia, girato da Bruce Gowers che sconvolgerà anche il modo di fruire di musica che lentamente imparerà a vedersi, non solo a sentirsi.

I fan di tutto il mondo impazziscono per questa follia.

Bohemian Rhapsody” è ovunque, piace a chiunque la ascolti. Nessuno può attaccarla. Non c’è menomazione da colpire, non c’è assenza, non c’è privazione.

C’è solo la voce aumentata nei suoi riflessi, c’è il significato che ti pare.

Il paradosso di una regina con 4 falli e il senso di vivere la vita nel modo che più ti conviene, che sia a Cardiff, in Galles, o in qualsiasi altro posto, a ricordarti di quando quel 24 agosto iniziarono le incisioni di un’opera regale fatta di tanti idiomi precisi e dettagliati, di schemi e di sovrastrutture.

Fatta di rock o, come dice meglio lui, di “thunderbolt and lightning“.

The Parallel Vision ⚭ _ Elisa Mauro)

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