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#Recensione: “Riccardo III” al Globe Theatre

Rosso è il colore dell’aggressività, delle emozioni forti legate al pericolo e alla passione. Rossa è l’ombra che incombe sulle vicende dei protagonisti del “Riccardo III”, in scena fino al prossimo 15 settembre al Silvano Toti Globe Theatre e curato dalla regia di Marco Carniti, grazie a una scenografia maestosa nella sua linearità e che desidero menzionare proprio all’inizio della mia analisi di quella che viene considerata la più sanguinaria fra le opere del bardo inglese.

Un adattamento ricco di simbologie, che indagano l’animo umano, rende in maniera efficace la complessità del “Riccardo III”. Un cavallo a dondolo imprigionato in un cubo di ghiaccio è la scena che introduce la cifra stilistica dell’intera opera. L’immagine del gioco del cavallo a dondolo riflette con semplicità il sapore antico del rapporto tra uomo ed equino. Il tipico movimento oscillatorio, invece, rimanda al processo biologico e vitale che accompagna l’uomo dalla culla alla sedia a dondolo. Il quadrupede custodisce nell’immaginario infantile e collettivo un veicolo di realizzazione di ideali umani come evocato nel mito dell’eroe. Nel rapporto antropologico uomo/cavaliere e animale/cavallo vengono messe in atto modalità comunicative complesse, attraverso un linguaggio prevalentemente corporeo. Linguaggio negato a Riccardo III: deforme e incapace di provare emozioni positive, è il suo stesso processo di crescita a rimanere incastrato nel blocco gelato.

L’opera venne scritta tra il 1591 e il 1592 e racconta i conflitti risalenti al periodo finale della Guerra delle Due Rose tra la famiglia Lancaster e la famiglia York, che portò alla presa definitiva di potere dei Tudor. 2 sono certamente i punti fondanti che rendono questo capolavoro unico: la complessa indagine storica e sociale tratteggiata da William Shakespeare e la tragedia della sete di potere che rende sterile tutto ciò che sfiora. Riccardo III è un uomo ingordo e in grado di manipolare la realtà a favore di un incubo da egli stesso tessuto.

È orribile morire quando non sei preparato e non te lo aspetti” – Sir Catesby

Un ragno che pazientemente avvicina le sue prede per poi divorarle non senza aver fatto loro provare la paura e l’agonia. Ma Riccardo III è anche un uomo che non accetta sé stesso e che non potrà quindi mai essere in pace con gli altri. Perché raccontare il male? Perché esiste, è parte del disegno universale tanto quanto il bene. 

La regia di Marco Carniti ha centrato questa funzione essenziale dell’opera shakespeariana ponendo l’accento su alcuni interessanti elementi: le modulazioni vocali di Maurizio Donadoni (Riccardo III) che, con le sfumature baritonali e allo stesso tempo carezzevoli della sua voce, inchioda l’attenzione del pubblico per l’intera durata dello spettacolo. Poi ancora i movimenti nelle scene corali, di grande suggestione cinematografica, all’interno delle quali ogni interprete emerge nella solitudine camaleontica della folla.

Interessante analizzare l’eterogeneità degli artisti in scena. “Nelle diversità è racchiusa la bellezza”, sembra indicarci la drammaturgia proposta. In un unico uomo, diverso per nascita da tutti gli altri, è racchiuso invece il male e il dolore che il mondo intero prova e ha forse vergogna di mostrare.

Melania Giglio, una strepitosa Regina Margherita, è il vertice della piramide del male che genera il male. Ogni ruolo in questo adattamento lascia gli artisti liberi di esplorare le parti più intime delle proprie anime. Nessun personaggio risulta secondario ma ciascuno a servizio del messaggio dell’opera shakespeariana così come ben sottolineato, ad esempio, dalle performance di Mauro Santopietro (Sir Catesby), Sebastian Gimelli Morosini (Principe Edoardo), Dario Guidi (Duca di York) e Federica Bern (Lady Anna).

Da menzionare, nella seconda parte della tragedia, l’imponente scena dell’incoronazione, grottesca immagine di una moltitudine incapace di riconoscere fra vittima e carnefice. Solo nel mondo che odio e che mi odia“: riconosce così, Riccardo III, la fine inesorabile del suo sanguinario regno dopo la maledizione della madre Paila Pavese, Duchessa di York. 

La paura è un sentimento? Ci lascia con questo interrogativo la conclusione dell’opera. Non è “il cattivo” a doverci spaventare: siamo noi stessi a dover temere della nostra incapacità di ribellarci al male interrompendo la sua catena letale. Il cane sanguinario esiste in ogni tempo. L’ignoranza lo rende più forte. La cultura e il coraggio lo incatenano al suo inesorabile destino di imperitura solitudine.

The Parallel Vision ⚭ ­_ Raffaella Ceres)
(Foto: © Giovanna Onofri)

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