Ci sono voluti 37 anni ma lo scorso 10 maggio è arrivato “Un elefante nella stanza“, il primo album di Ivan Talarico pubblicato su etichetta Folkificio. Ok, non esageriamo. 37 magari no, ma Ivan è in giro da parecchio tra spettacoli a teatro, libri di poesia e tantissime canzoni scritte nel corso dei suoi tanti anni di attività artistica. “Un elefante nella stanza” è il dono del cantautore di origini calabresi ma romano d’adozione al suo pubblico, una specie di “Best of” firmato in cabina di regia da Filippo Gatti e Gian Luca Figus.
Ho chiesto a Ivan di raccontarmi qualcosa in più sul suo progetto discografico durante un caldo pomeriggio a Villa Borghese, sulla collaborazione con Gatti e su tutto il lavoro realizzato in Maremma nell’arco di soli 8 giorni.
Immaginando questo disco come un figlio, hai seguito un percorso “poco artistico”: di solito i musicisti i figli li fanno da giovani, tu l’hai fatto da “contemporaneo”.
Questa cosa “disco-figlio” la disco-nosco! Non l’ho vissuta come una paternità, sono canzoni che girano da tanto e nella mia testa erano già fuori da tempo. Sono arrivato al disco in un momento sereno, dopo tutta l’esperienza live da solo, sentendomi quasi fortunato per non averlo fatto finora. Ma avere un suono definito, poter far ascoltare le canzoni senza suonare e fare concerti in band sono aspetti che mi entusiasmano.
Il desiderio di collezionarle in un unico disco quand’è partito?
Quella è stata un po’ filantropia! Per voglia e bisogno di avere un’identità, una riconoscibilità che le persone potessero ritrovare. “Un elefante nella stanza” è stato pensato non per ricalcare il live ma per essere un album che tu tranquillamente ascolti facendo le tue cose, ti accompagna nella quotidianità e ti può portare verso qualcosa di più profondo. C’è un livello di lettura immediato che si appoggia sull’ironia e sull’effetto di certe frasi e poi ci sono altri piani che ti portano più dentro.
Come accade spesso con i tuoi testi.
Cerco sempre di avere un impatto, una connessione forte con il pubblico. Ho fatto concerti in giro nelle situazioni più varie, quasi un’esperienza da strada che mi ha portato a cercare di guadagnare l’attenzione delle persone. Quindi tento attraverso le parole e dei meccanismi anche comici di portare le persone ad ascoltarmi per poi sviluppare il mio discorso, che quasi sempre è drammatico.C’è stato un criterio con cui hai scelto i pezzi inseriti nel disco?
Per fortuna ci sono stati Filippo Gatti, che ha avuto l’idea compiuta del disco e poi Gian Luca Figus. Dal confronto con loro 2 è venuta fuori la scaletta dell’album, valutando insieme tutti i pezzi. Va da sé che alcune canzoni erano già selezionate, come “Carote d’amore” e “L’elefante“. Altri pezzi sono stati scelti abbastanza naturalmente, anche in base al ragionamento che ha fatto Filippo sull’idea del disco, su quello che doveva comunicare e rappresentare.
Cioè?
Una sintesi potenziata di ciò che avevo fatto finora. Filippo ha identificato da subito 4 strutture base: una parte legata alle onomatopeiche, una teatrale, una di canzone d’autore e un livello di canzone più pop.
Tra quante canzoni hai scelto?
In totale ho scritto circa 40-50 canzoni, ma per il disco abbiamo scelto tra 20-25. Le altre già le immaginavo per dischi e progetti successivi. Abbiamo deciso di dare un senso a tutto il percorso fatto fino ad ora. Certo, “Carote d’amore” alla fine l’ho scritta nel 2014 e riproporla oggi poteva suonarmi vecchio. Invece lavorando sull’arrangiamento e poi seguendo il progetto artistico e discografico di Filippo si è tutto un po’ rinnovato e questo mi ha dato la possibilità di sentire questi pezzi attuali.Tu insieme a Filippo e Gian Luca come avere lavorato?
Di alcuni brani avevo fatto dei provini cercando un suono. Filippo secondo me ha fatto una cosa molto bella: lavorando per continui oblii, ascoltando e non riascoltando, ha sentito i provini una volta sola e li ha lasciati “depositare”. Così gli è rimasto in mente solo quello che veramente era necessario, quello che lo aveva colpito. Poi, nelle seconde provinature fatte con lui e Gian Luca, ha lavorato raffinando e non riascoltando, tenendo soprattutto in mente i processi. Quando abbiamo registrato (8 giorni più un paio di ritorni) siamo ripartiti da zero a costruire ed è ritornato da tutto quel lavoro, magicamente, solo quello che serviva.
Ti sei affidato completamente a Filippo, quindi.
Completamente. Sempre nelle mia maniera vagamente ansiosa, cioè: mi fido ma voglio sapere tutto. Prima di lui avevo rifiutato alcune proposte di produzione perché avevo bisogno di una figura molto precisa. Quando è arrivato Filippo ho fatto un’immersione nel suo lavoro, mi sono risentito soprattutto i suoi 3 dischi solisti (“Tutto sta per cambiare“, “Il pilota e la cameriera“, “La testa e il cuore“, ndr) e sono rimasto talmente colpito dalle canzoni, da come le scrive, dall’atteggiamento nei testi, dall’impianto sonoro, che mi sono affidato. È stato fondamentale.
Riascoltando il disco adesso, come ti senti?
Soddisfatto.
Parlami del titolo dell’album.
La prima volta che ho sentito questa espressione è stato grazie a Marco Andreoli che mi ha fatto vedere il video di un TED che iniziava proprio con la frase “Un elefante nella una stanza” e parlava di come un uomo aveva convissuto col suo tumore, facendo finta all’inizio di non vederlo. Lì per lì il termine mi colpì ma non pensavo al disco. Poi quando ho iniziato a valutare un po’ di possibilità per il titolo (un elefante in un negozio di cristalli e simili), ho ritrovato questa frase idiomatica. C’è anche un sottolivello molto letterario: nella poesia la “stanza” indica grossomodo la strofa. Quindi siccome in una delle mie canzoni più importanti c’è “un elefante” nella strofa, mi è sembrata un’ulteriore conferma.
Un tuo testo sotto quante revisioni passa?
Dipende dai testi. “L’elefante“, ad esempio, ha vissuto di 4-5 mesi di preparazione mentale in cui io sapevo che volevo scrivere questa canzone su diverse sfasature della parola “amore” e la prima cosa che mi era venuta in mente è stata “ti elefanto”. Ma non riuscivo a tradurla in canzone, quindi sono stato mesi e mesi tra pezzetti di appunti in cui cercavo melodie ecc. Poi a un certo punto ho deciso di scriverla e ci ho messo un quarto d’ora a finirla, con tutta la musica! “Carote d’amore“, invece, dopo averla abbozzata mi sembrava un po’ troppo cabaret e l’ho abbandonata. Un giorno, chiacchierando con Claudio Morici, mi ha consigliato di “aprirla”, di non lasciarla di primo impatto e ci sono stato dietro un bel po’ di tempo, cercando di trovare una connessione tra quella canzone un po’ sciocca, il teatro e i brani onomatopeici. È stato un lavoro abbastanza lungo, anche di consapevolezza.
Capitolo singoli.
Tra un po’ dovrebbe uscire “Carote d’amore“, poi vorrei lanciare un altro paio di pezzi. L’ho scelto come primo singolo perché è la canzone che mi ha permesso di girare di più ed è stata la più ascoltata finora. Poi pensavo a “Eppure noi viviamo ancora” e “Battito d’ali“, che alcuni mi dicono essere la più bella dell’album e che io stavo per escludere! Ma tendo a escludere sempre le cose che funzionano di più, come mi rimprovera spesso Morici.
Musica, teatro e poesia. Messo alle strette, a cosa non rinunceresti mai?
Alla musica, intesa come canzone. È un po’ una sintesi delle altre cose, in cui riesco a far confluire la scrittura dei testi e l’esperienza teatrale. Ma anche se fosse solo musica e non canzone la sceglierei lo stesso, perché è una delle poche cose che riesce a sottrarci dalla continua oscillazione tra il dolore e la noia, in un’ottica schopenhaueriana. Come vedi non rinuncio nemmeno all’ottimismo.
Descrivimi “Un elefante nella stanza” con un accordo e 3 parole.
L’accordo è l’ultimo di “Sgombro“, un Fa 6/9. “Un elefante nella stanza” è
sentimenti, incomprensioni, andirivieni.
(© The Parallel Vision ⚭ _ Paolo Gresta)
(Foto: © Lucrezia Testa Iannilli)