Dalle radici greche di “radice” e “canto” si apre lo scrigno di AdoRiza, collettivo di 17 artisti nato dall’esperienza di Officina Pasolini che si è costituito per mettere in scena, per ora, uno spettacolo (e un libro, e un disco) sulla musica popolare. Lo spettacolo si intitola “Viaggio in Italia. Cantando le nostre radici”, è stato in scena al Teatro Marconi dal 21 al 24 febbraio e sarà all’Auditorium Parco della Musica il prossimo 24 aprile con l’obiettivo di “ridare lustro a un repertorio musicale che ci appartiene in modo ancestrale e che rappresenta molto più di un bagaglio culturale della nostra tradizione”. Li abbiamo incontrati uno per uno nelle sale di Officina Pasolini e ci siamo fatti prendere dalla nostos-algia, raccontandoci le storie che abbiamo dimenticato.
Il paese di Sara Franceschini, interprete, è Roma. Più precisamente la Garbatella, con tutta la sua romantica storia popolare. Con lei, di formazione classica, ci siamo fermati alle parole, che spesso raccontano il mondo.

Che cos’è per te una radice?
È una possibilità verticale, è qualcosa che va a fondo e al tempo stesso ti permette di crescere. Ma è anche un legame emotivo con la casa, perché è dove tutti prima o poi aspiriamo a tornare per riconoscere noi stessi.
In che senso?
Spesso la vita nasconde chi siamo: tornare a casa è come guardarsi allo specchio e togliere il superfluo. Arriva un momento in cui bisogna ritrovare la propria identità, che non è elitaria ma inclusiva, perché ha a che fare con i sentimenti più veri, che poi sono quelli più semplici.
È suggestivo che tu abbia collegato la parola “ri-conoscersi”, “conoscersi di nuovo”, al ritorno a casa: è come se si tornasse all’essenziale, senza gli orpelli che si accumulano durante il viaggio. Forse la radice ci lega prima di tutto a noi stessi.
Più che un legame è proprio un sentimento.

Però ci lega anche a un luogo. C’è una frase di “La luna e i falò” di Pavese che dice “un paese ci vuole non fosse che per il gusto di andarsene via”. Che cosa ti porti appresso dal paese da cui sei andata via?
Ho avuto la fortuna di crescere alla Garbatella, che infonde un forte senso di appartenenza perché è nato come quartiere popolare ed è rimasto intatto nell’anima. Lì ho fatto tutte le scuole e dopo la maturità sono andata a studiare al Conservatorio di Napoli. Ci sono tornata per Officina Pasolini (che nel primo anno di laboratori risiedeva fra il Palladium e l’Ambra Garbatella, ndr) e l’ho vissuto come un ritorno a casa. Dalla Garbatella mi porto il grande amore per la canzone romana: Roma è un amore che si rinnova continuamente.
Ci si immagina il paese come qualcosa di piccolo, raccolto; è curioso che il tuo paese sia una grande città.
Ma Roma è un paese (sorride, ndr). Anche la Garbatella è un paese e crescerci è stato determinante: il liceo classico Socrate, ad esempio, mi ha insegnato a riflettere sulle parole e questo aspetto lo porto anche davanti al microfono.
Nello spettacolo canti una canzone in trentino.
Ho dovuto fare un grande lavoro sulle doppie (sorride, ndr), è un pezzo difficile ma coinvolgente. Racconta la storia delle donne che durante la dominazione austriaca erano costrette a fare le serve: nella loro denuncia ogni parola ha un peso. Sono questi i momenti in cui ripenso al mio percorso con nostalgia.
Che poi è il dolore del ritorno.
Il senso del viaggio è proprio quello: è un cerchio che si chiude.
La musica popolare ha una genesi particolare: ha uno sviluppo tematico diverso, ha timbri e metriche diversi, le canzoni nascono in forma orale. Per un’interprete, quanto è stato istruttivo confrontarsi con una materia di questo tipo?
È stato pazzesco (sorride, ndr). È stato fondamentale perché siamo andati a fondo nella ricerca. Ci siamo innamorati di un brano arbëreshë di cui non riuscivamo a trovare il testo e allora ho scritto a tutte le comunità arbëreshë per trovarlo! I gestori di un gruppo Facebook me lo hanno inviato, felicissimi di poter condividere quella tradizione.
Il bello è che a metterlo in scena sono persone che sono più vicine alla modernità che alla tradizione.
In realtà io mi sento più vicina a questo racconto. Queste canzoni sono di un’attualità incredibile. Se penso che il coro delle lavandaie, riletto da De Simone (in “La gatta cenerentola” nel 1976, ndr), è di epoca sveva… (ci interrompono Francesco Anselmo e Andrea Caligiuri per un saluto, ndr).
Che paradosso: canzoni antichissime sono modernissime e canzoni ultra-locali sono universali.
È questa la grande scoperta. Queste canzoni sono più forti di qualsiasi altra cosa abbia mai cantato.
Avevi già avuto esperienze con la musica popolare?
Ho iniziato a cantare in romanesco da piccola col mio papà, che è chitarrista classico. Questo linguaggio mi ha sempre affascinato perché parla al cuore, senza fronzoli. Il romanesco ti trasmette all’istante il senso di un’emozione. “Te voglio fa’ sape’ quello che sei pe’ me / sei la gioia la vita e l’amore / e ‘sto core sospira pe’ te (versi di “Serenata de paradiso”, classico romanesco, ndr): se te la parafraso la rovino! (sorride, ndr). Per una persona timida il dialetto è una grande opportunità.
Allora potevamo farla in dialetto l’intervista!
Infatti! (ride, ndr). In realtà nella vita di tutti i giorni non lo parlo, ma è una grande possibilità espressiva e narrativa.
Il dialetto rappresenta un mondo e mettere in scena uno spettacolo in dialetto significa mettere in scena tanti mondi.
La grande ricchezza è che veniamo da regioni diverse e poter condividere l’entusiasmo con i colleghi cantautori mi ha colpito. È un progetto che ci ha avvolti completamente.
(© The Parallel Vision ⚭ _ Daniele Sidonio)