Il cinismo che (ri)suona nell’aria insieme ai jingle natalizi rappresenta, in questo periodo dell’anno, argomento di riflessioni fin troppo di circostanza. Siamo talmente assuefatti dal sentire comune che sorvoliamo con leggerezza sull’altro aspetto di quella medaglia rilucente chiamata festa: la solitudine.
“Il Natale di Harry” di Steven Berkoff, tradotto da Giuseppe Manfridi e portato in scena al Teatrosophia dal 14 al 16 dicembre, racconta l’analisi di una condizione che almeno per una volta ha attanagliato i cuori di ciascuno di noi.
Harry è un giovane adulto che colleziona cartoline di auguri e conta i Natali che passano attraverso il numero decrescente di quelle ricevute. Per Harry il Natale è quasi solamente quello: un domino anonimo di pensieri, sbiaditi dal tempo che passa.
Harry, un intenso e abilissimo Alessandro Giova, deve fare i conti con la sua coscienza confusa e, come nel miglior spirito dickensiano, sarà proprio la sua voce interiore il mostro che il protagonista dovrà fronteggiare per scegliere se passare l’ennesimo Natale da solo in attesa di essere invitato da qualcuno, oppure deciso a fare lui stesso il primo passo verso una rinascita nel giorno della nascita per antonomasia.
“il Natale è rivelatore: sembra fatto apposta per farti sentire che non esisti ”
Come delicato si presenta il filo dei decori natalizi al quale sono appese le consuetudini del nostro giovane e infelice uomo, così lo è il confine fra il sentirsi soli e il procurarsi solitudine per cullarsi nel proprio dolore, senza più riuscire a farne a meno. In questa doppia riflessione è custodita la vera provocazione de “Il Natale di Harry”.
L’interpretazione accurata di Alessandro Giova rende Harry inizialmente tanto maldestro e quasi antipatico nelle sue paranoiche insicurezze da far venire voglia di gridare dal fondo della sala teatro: “Forza un po’! Reagisci!”. Nel dipanarsi della narrazione un ritmo claustrofobico avvolge il pubblico modificando le emozioni percepite e lo accompagna verso una conclusione che sembra voler lasciare sospesa la scelta del protagonista. I ricordi rimarranno tali o saranno il fondo dal quale risalire?
La regia curata da Marta Iacopini ha prediletto pochi ma essenziali movimenti scenici ripetuti spesso identici tra loro, quasi a voler sottolineare il senso di prigionia nel quale è sospeso il protagonista in scena. La scelta di video proiettare in sequenza continua il dialogo con la coscienza di Harry rende i tempi drammaturgici una vera sfida alla meticolosità d’interpretazione.
Lo spettacolo analizza in maniera originale la condizione di inquietudine per uno stato sociale che riconduce l’individuo verso la genesi di tutte le paure: essere unico e non ripetibile e in quanto tale non compreso dal prossimo. Uno sviluppo emotivo corretto aiuta questo senso di angoscia a trovare la sua direzione positiva. Ma cosa accade se un’educazione opprimente, i sensi di colpa e l’egocentrismo prendono il sopravvento?
Il “Natale di Harry” non è quindi la solita commedia drammatica per piangersi addosso, ma serve a scuotere ciascuno affinché ci si ponga da entrambi i lati della solitudine. Esiste un rimedio per questa malattia? C’è sempre una soluzione. A patto che parta da noi. Provare, ad esempio, ad avere cura di chi potrebbe stare persino peggio di come ci sentiamo noi, ricordarsi di dire più spesso “ti voglio bene” a chi ci rimane accanto. Non stancarsi di progettare, costruire, seminare.
La stanchezza di Harry, arroccata sui cubi neri della scenografia, è la stanchezza che tutti attraversiamo prima o poi. Ma non esiste fortezza che non possa essere scalfita da un gesto gentile. Donato o ricevuto che sia.
Il Teatrosophia è una delle realtà teatrali più giovani della Capitale e subito inserita di diritto nella nostra rubrica del #Club29. Mi piace spendere, come chiosa a questa recensione, una parola dedicata a questo spazio che fa dell’accoglienza il suo punto di forza. L’opportunità, dopo un spettacolo, di restare a teatro con un bicchiere di vino per scambiarsi opinioni o semplici saluti rende appieno l’idea che fare cultura significhi anche agevolare un nuovo senso critico condiviso e di familiarità. E ne abbiamo davvero bisogno.
(© The Parallel Vision ⚭ _ Raffaella Ceres)