Giulio Stasi ha avuto un’idea. Questa idea è diventata un progetto. Questo progetto ha incontrato l’interesse di alcuni collaboratori e ha avuto il supporto necessario perché prendesse forma e divenisse uno spettacolo. Particolare, decisamente insolito per la capitale, partecipato anche dal pubblico.
Le storie partono da Mauro Andrizzi e Marcus Lindeen, argentino e svedese, che si trovano, scrivono insieme e realizzano un film, “Accidentes Gloriosos”, che partecipa alla sezione Orizzonti del Festival di Venezia 2011 e vince.
Le immagini e i racconti di questo film ispirano Giulio Stasi al punto da dedicare parte degli ultimi 4 anni del suo lavoro a immaginare quella che ne sarà la messa in scena.
La rappresentazione al Teatro India di Roma diventa il momento più compiuto del processo di realizzazione di questa opera composta da sette quadri, “Sette Accidentes Gloriosos“, appunto, parte dei quali sperimentata negli anni precedenti anche nell’ambito di rassegne come Teatri di Vetro.
Arrivo al Teatro India col solito senso di smarrimento iniziale che provo ogni volta che inizio a scendere i primi gradini. Non intuisco mai da dove entrare, se dall’ingresso principale, o dal laterale e ad amplificare il mio vacillante senso dell’orientamento ci pensa il brecciolino che rende instabile anche la postura.
Intercetto un gruppetto di persone in attesa all’ingresso laterale del teatro e mi avvicino. Sta per iniziare il primo dei 7 accidentes per il quale sono prenotata. Un fitto incastro di performances, in orari diversi per un numero limitato di spettatori. Una giovane accompagnatrice ci spiega come procedere.
Facciamo silenzio, entriamo, è buio, si intravedono dei tubi enormi, si capisce ovviamente che la performance ha a che fare con loro, lei ci indica chi siede nel buco-ingresso del tubo e chi sta fuori, i voyeurs.
Ecco, in ogni accidentes uno o più spettatori vengono direttamente coinvolti, con discrezione, in modo più o meno efficace, sempre in un continuo rimando con qualcosa che riguarda tutti, attori e pubblico, tutti coinvolti in incidenti che hanno semplicemente a che fare con la vita, più che con la morte. Anche se di questa, chiaramente, molto si sente parlare.
Glory Holes. Dalla penombra l’attrice si avvicina nel grande cilindro forato, all’interno del quale sono seduta. Entra, siede davanti a me e inizia a parlare. Contemporaneamente in altri cilindri parlano altre attrici con altri spettatori e dicono le stesse cose. Parlano di un foro nel muro, di una fellatio, di questo scambio che avviene all’interno di un club, di un uomo che pratica questa arte come nessun altro al mondo, l’attrice parla di visioni e orgasmi trascendentali.
Di un amore, di un prendersi cura senza chiedere nulla in cambio, se non il piacere incondizionato dell’altro. È tutto sussurrato, poche sfumature. Ascolto a occhi chiusi, mi distraggo, mi arriva uno sputo su una palpebra, riapro gli occhi, provo a percorrere la sagoma di questa attrice che non vedo, che adesso sussurra con veemenza, mi domando cosa ci faccio nel buco e perché. Perché dalle altre che dicono le stesse cose non mi arrivi nulla. Si mischiano i pensieri in questa penombra, poi il silenzio. L’attrice esce.

Usciamo anche noi, gruppetto di spettatori, con non poche perplessità e l’impatto mi preoccupa subito. Gli accidenti sono quelli che mi verrebbe da lanciare alla fine di questo primo quarto d’ora.
Poi però a pensare questa cosa mi sento talmente banale che decido di fare un bel respiro. Piano piano qualcosa si distende e inizio a rilassarmi anche io, che diretta dal lavoro sono corsa all’India e mi sono subito infilata in un buco a sentire un’attrice che mi parla di un’indimenticabile fellatio. A volte anche la vita dello spettatore è difficile.

Mi guardo intorno, non c’è tantissima gente, ma percepisco che sta accadendo qualcosa di molto bello. Quasi ogni spazio, interno ed esterno di questo teatro prende vita, in quasi ogni spazio di questo teatro voci, corpi, suoni producono azioni che scatenano delle re(l)azioni e delle emozioni.
Continuo. Raggiungo l’ingresso principale dove all’interno del (a ragione!) famigerato spazio teatrale ristrutturato, si svolge l’accidente glorioso numero 7.

Un Agujero en la Calle. Ho l’impressione, quasi da subito, che ci sia qualcosa di troppo letterario in quello che sto guardando e mi manca il teatro. È un mix tra arte contemporanea, performance (?), teatro sperimentale. Dopo 5 minuti vorrei uscire, ma resto dentro. Alla fine di tutto vorrei capire meglio ma decido che, forse, capire adesso è la cosa meno interessante, mentre proseguire è ciò che mi viene richiesto, così lo faccio, perché sento che quello che sta accadendo è più importante di quello che vedo.
Esco nuovamente fuori e vado verso uno degli ingressi secondari del teatro, dove accedono le auto, solitamente. Lì mi aspettano altri sette spettatori. Tutti insieme veniamo messi su un furgone e in modo molto teatrale la maschera, adeguatamente diretta, partecipa a creare la giusta atmosfera, con tono molto freddo e deciso ci intima di restare dentro, di stare zitti, di non uscire fino a che, una volta tornati, non sarà lei a venire ad aprirci.
Ovviamente ci viene a tutti da ridere, perché un po’ siamo tesi, un po’ la cosa fa ridere per davvero, un po’ il paradosso sarebbe uscire con questo furgone e farlo per davvero un incidente. Ecco che sale l’interprete di questa nuova performance: Fotografo de Accidentes. Lei è minuta, molto decisa, abile con il furgone, si vede che ha studiato molto per imparare a guidarlo e prendere confidenza col mezzo.
Ci porta fino al deposito Ama, dove simula di investire qualcosa e scendendo dal furgone recupera una ruota di una bici che poco dopo, parcheggiando in teatro, la vedremo appendere su una delle bellissime mura esterne dell’India, insieme ad altre ruote, che l’attrice fa girare con rabbia ed eleganza.

Sono ingranaggi di un sistema, di una mente, della quale noi spettatori ancora dentro al furgone ascoltiamo il monologo, la voce registrata che ci racconta della sua passione di fotografare incidenti. Questa estetizzazione del dolore, questo bisogno estremo di cercare bellezza nella carne macellata, queste astrazioni generate dall’esperienza che da spettatore vivo mi distanziano dai contenuti, prevalgono le suggestioni, che questo grande progetto sta creando intorno e dentro me.
Ci fanno scendere dal furgone. Resto nello stesso punto dell’area esterna del Teatro India, perché nello spazio di fronte si tiene un’altra performance. Ci accompagna una nuova guida, preparatissima anche lei.
Siamo 5 spettattori prenotati, ci fa salire su una macchina e ci invita ad allacciare le cinture. Ci viene da chiedere se quello che sta per accadere sia sicuro, a testimonianza che l’impatto c’è e non lascia indifferenti per niente. Davanti a noi c’è un’altra macchina, con dentro una donna.
Appena ci sistemiamo il suo volto si illumina e inizia a parlare, la sentiamo dall’autoradio. Accidente de Coches. L’interprete ci racconta di un incidente stradale, ci descrive le due vittime che vede nell’auto ribaltata (che sarebbe la nostra, quella con il pubblico), i corpi hanno le stesse caratteristiche dei due poveri cristi seduti davanti. Uno dei due sono io. Mi aggrappo all’astrazione, di cui sono protagonista e qui mantenermi distante è più complesso.
Parla a me, mi descrive. L’attrice è bravissima, il punto di vista cambia mentre l’auto con lei si avvicina e diventa la vittima dell’incidente che, mentre sta morendo, vede scattare il flash. Il tutto si conclude con l’auto dell’attrice che avvicinandosi impercettibilmente tocca l’auto degli spettatori frontalmente, poi fa retromarcia, pronta a ricominciare. Sono stanca, penso di andare via, ma so che non potrò guidare il motorino subito dopo questa performance.
Mi preparo per vedere il quinto di sette dei miei accidentes programmati che è anche il quinto della serie. Un Corazon Nuevo. Qui la suggestione di base è vedere il pubblico seduto a terra nello spazio scenico che, abilmente inquadrato dall’obiettivo di una macchina fotografica, viene proiettato sul grande schermo-fondale.

Ogni faccia, ogni espressione è colta, fino ad arrivare all’attrice che racconta la storia di un trapianto di cuore a beneficio del marito, arrivato da una donatrice morta in un incidente automobilistico, lunghissimo filo rosso di tutti questi accidenti gloriosi.
C’è più vita in un accidente che in tanti teatri, mi verrebbe da dire. Ma non lo dico. Mi piacerebbe partecipare anche a 29 Marzo 1912, ma dura 90 minuti, sono le 22.50 e ho una sveglia alle 6.15. Così questa volta desisto, ma prima di andare via entro nell’unico degli accidentes per i quali non è previsto un orario preciso, né una effettiva prenotazione, una sorta di installazione.
Si accede prima dall’ingresso laterale, poi si esce da una delle porte antipanico che dà su una specie di cortile secondario dove si erge una torre. Torre Animal. Appena entro trovo un paio di capre e un asinello (veri).
La maschera che mi ha accompagnato mi invita a guardarmi attorno, le chiedo se arriva qualcuno, mi risponde che non aggiungerà altro. Un po’ intimorita inizio a vagare per questo spazio, non voglio disturbare le bestie.
Su una panchina due ragazze con una torcetta leggono qualcosa e penso che facciano parte della performance, poi vedo altre torcette su un’altra panchina, così ne prendo una (anche io faccio pare della performance) e decido di seguire il consiglio della maschera.
Mi guardo intorno. Giro dietro alla torre che ha un ingresso. Mi sporgo e trovo a terra un mucchio di lettere. Nel frattempo una voce fuori campo inizia a raccontare una storia. Io prendo una lettera dove c’è scritto che è per me spettatore, la apro e all’interno trovo una lettera d’amore. Ci sono tante lettere d’amore, ognuna destinata a uno spettatore diverso.

Si chiude così la mia serie di accidentes. Come un atto d’amore. Con una lettera d’amore che parla di quotidianità e di vita, scritta da qualcuno che non c’è più, o forse che non c’è mai stato. Del resto cos’altro è il teatro, se non questo? Amore.
(NS)