#Recensione: “Scala Reale” di Paolo Maria Congi al Teatro Trastevere

Un fatto è certo: non ci si può più stupire di nulla.
Per un processo di normalizzazione dell’abnorme siamo portati a giustificare, capire, interpretare tutto quello che ci capita, leggiamo sui giornali o ascoltiamo dai racconti di altri.
E a concludere questo: non ci si può più stupire di nulla.
Abbiamo un nome per ogni abuso: dal mobbing allo stalking, dal ghosting al gaslighting.
Ma saperli nominare sembra ci abbia reso abilissimi a mettere etichette prima di preoccuparci di sapere dove certe derive porteranno.
Non ci si può più stupire di nulla, ripeto.
Ma proprio nel senso che non te lo permettono, perché anche lo stupore è superato, antico, retorico persino. “Ma di che ti stupisci?”.
“Scala Reale”: lo spettacolo al Trastevere
Come tutto può accadere, allo stesso modo tutto può diventare argomento di conversazione o materia per uno spettacolo teatrale.
E dev’essere stata proprio la normalizzazione dell’abnorme a muovere Paolo Maria Congi, autore, regista e interprete di “Scala Reale”, al Teatro Trastevere dallo scorso 30 marzo per 4 sere, nel mettere in scena una storia che di usuale non ha nulla.
Utilizzo qui l’aggettivo usuale con accezione anche positiva.
Il sipario si alza su uno spazio asettico, lo studio di una psicologa in ristrutturazione.
“In ristrutturazione” si riferisce a entrambi, lo studio e la psicologa.
Lei, Selene (Benedetta Cassio) riceve uno dei suoi pazienti, un “attore fallito” (definizione di lei) che ha appena scoperto di avere un mese di vita (Congi).
E si presenta in studio per chiudere la partita con sé stesso e con la terapeuta.
Ha una pistola, è frustrato, vuole un’attenzione che lei non può e non vuole dargli (o forse sì? Non ho capito).
A occhio sembrerebbe si sia verificata una situazione di tranfert e controtransfert.
Lui è molto concitato, vuole capire perché si sente respinto. La professionalità di lei è al minimo sindacale: Selene vuole solo far capire all’attore che quella è l’ultima volta che si incontrano.
Allora lui la butta per terra e la violenta, ma senza penetrarla (viene specificato).
Lei per tutta risposta si butta sulla bottiglia di vino rosso che aveva aperta lì accanto e vomita di brutto.
Del resto pure gli psicologi possono avere momenti difficili, anche se ci piacerebbe tanto pensare che un professionista della psiche – nel suo privato – non faccia scelte di comodo che poi si rivelano scomode.
Che sappia quello che è buono e quello che non lo è, almeno per sé stesso.
Che fornisca chiavi di lettura e non alibi.
Che non abbia istinti omicidi verso il coniuge. Che non lasci correre se un paziente la/lo violenta, che non affoghi nell’alcol la sua irresolutezza.
Ma queste, come dicevo, sono solo certezze che ci piacerebbe mantenere.
A un certo punto entra in scena il marito di Selene, che sappiamo essere un procuratore (Paolo Cutroni).
Allora pensi “ora arriva qualcuno che – anche per via del lavoro che fa – avrà i nervi saldi e la mente lucida e ci spiega cosa sta succedendo”.
Macché, anche lui talmente frustrato dalla sua vita di coppia da non rendersi nemmeno conto di quanto è fuori luogo col suo tono minaccioso, visto che si ritrova imbavagliato e con una pistola puntata.
Il procuratore continua a fare come se partecipasse a un gioco di ruolo o a una terapia di gruppo in cui ognuno si sfoga ma nessuno si fa male veramente.
Di fatto gli porta bene pensarla così, visto che lui ne esce vivo.

“La violenza come necessità di reazione”
I 2 uomini sono accomunati dal fatto che entrambi tentano di costringere la psicologa/moglie a un rapporto sessuale lì, nello studio in ristrutturazione.
La sinossi dello spettacolo spiega: “Il mondo di oggi: un mondo violento, senza più punti di riferimento. Ognuno coi propri sogni, ognuno coi propri traumi, coi propri desideri messi a nudo“.
“La voglia di vivere, il desiderio di fuggire, ma tutto sfugge dal controllo“.
“Un gioco perverso, e la violenza come necessità di relazione“.
“Una violenza espressa dagli uomini, che a modo loro abusano di Selene, diversi ma uguali nelle loro esigenze animali e nella loro solitudine“.
“Scavare dentro l’uomo: un triangolo nero dove nessuno è buono e nessuno è cattivo”.
E ancora: “Il testo è scritto come una forma di partita a 3, che racconta durante i mesi della quarantena il bisogno del gioco malvagio, della perversità nascosta dentro i rapporti quotidiani, di scavare dentro l’animo umano senza giudizio“.
“Una riflessione caustica sul nostro modo di vivere, che sfocia in una negazione della realtà oggettiva”.
Un dramma psicologico?
Una negazione della realtà oggettiva in che senso?
Che ciascuno va per la sua strada inseguendo le proprie piccole soddisfazioni e dannandosi per i propri traumi/abbandoni/sensi di colpa ma che poi non esiste una reale interazione tra esseri umani?
Anche questo non mi è chiarissimo, ma va bene: se “Scala Reale” nasce come dramma psicologico, ci sta che lo spettatore interpreti e si immedesimi secondo le sue esperienze.
Il problema nasce quando la suspence si scioglie nel fatto che i 3 personaggi sono talmente connotati da sembrare caricature di esseri umani.
A un certo punto la situazione è talmente assurda che in platea non si capisce se ridere o piangere, e si finisce soprattutto col ridacchiare.
Ma se questo era l’intento dello spettacolo va bene così.
(© The Parallel Vision ⚭ _ Paola Polidoro)