Sei ricercatori chiusi in un laboratorio a cercare un vaccino contro l’Ebola. Sei personaggi, provenienti da tutto il mondo, che si ritrovano a combattere il virus proprio nel luogo dove sono impegnati a trovarne la cura. Questo è “E-bola“, il film di Christian Marazziti che verrà proiettato il prossimo 19 ottobre al Festival del Cinema di Roma ma già presentato in anteprima mondiale lo scorso 15 luglio presso l’Auditorium del Ministero della Salute.
A curarne la colonna sonora ci ha pensato Stefano Switala, giovane compositore romano diplomato in “Film Scoring” al Berklee College of Music di Boston e autore di musiche per pubblicità, docu-film, tv e teatro.
Stefano, oltre ad aver vinto il premio Nino Rota Junior al Festival di Ravello 2009 come miglior giovane compositore di musica per immagini, collabora con la Rai per la quale realizza diversi spot, sigle televisive e radiofoniche. Ci ha raccontato dei suoi studi negli Stati Uniti, di un sistema accademico fortemente orientato verso il mondo del lavoro che ti consente di essere un professionista della musica a 360 gradi e, ovviamente, della genesi di “E-bola“, una soundtrack oscura che tenta di dare un volto al virus protagonista della storia. Ascoltiamolo.

Stefano, com’è nata la collaborazione con Christian Marazziti, il regista di “E-bola”?
Io e Christian ci eravamo incrociati nel mondo del teatro, dove io ho cominciato a fare le prime cose qui in Italia. Quando sono tornato dagli Stati Uniti, il caso ha voluto che una persona della troupe aveva lavorato con me in un’altra pellicola e quindi è stata lei a fare il mio nome a Christian, che cercava appunto un musicista per la colonna sonora. Lui poi si è ricordato di me e quindi è stato abbastanza facile perché più o meno già conosceva i miei lavori precedenti. Christian è rimasto molto contento delle musiche, arrivando persino a commuoversi in certi punti!
Il film tocca un tema delicato e attuale come quello dell’ebola. Tu hai sentito un po’ di pressione in più, in fase di composizione?
Il film nasce come scientifico ma diventa inevitabilmente drammatico per via delle vittime fatte dall’ebola. Per Christian la musica ha un ruolo molto importante perché permette alla sua opera di arrivare alla pancia della gente, andando oltre il mero scopo informativo e divulgativo. Non ho sentito proprio pressione, più che altro ho avvertito che si stava parlando di una tematica molto delicata. Tra l’altro, mentre stavano facendo le riprese, c’è stato il caso di Fabrizio Pulvirenti, il medico ricoverato allo Spallanzani di Roma e poi guarito dall’ebola. Quindi il film parla anche involontariamente un po’ di questo, della sua storia. Ho sentito l’urgenza di fare una cosa che arrivasse alla gente, scrivendo il tema con una certa responsabilità e ho cercato di andare oltre, come ti dicevo prima, l’aspetto descrittivo della vicenda. Volevo far capire l’importanza della ricerca e quanto sia decisivo non abbassare mai la guardia. L’unica pressione che ho sentito è arrivata dal fatto che questo sarà un film internazionale e verrà distribuito anche all’estero.
Quanto tempo ci hai messo per comporre le musiche?
Un tempo da record, come al solito! (ride) Come succede nella maggior parte dei casi ti dicono sempre che le musiche servono per il giorno dopo, nel cinema come nella pubblicità. Solo che non siamo come i juke box, dove metti la monetina e quelli partono. I tempi erano un po’ stretti perché volevamo mandarlo al Festival di Cannes, solo che alla fine non è stato più possibile. Diciamo che ci ho messo un mese scarso, che è molto poco per scrivere una musica da film. Di solito hai almeno due-tre mesi, ecco.
Tu hai parlato dell’ebola come del “protagonista invisibile” del film. Questo virus come te lo sei immaginato? Perché nelle musiche emerge un approccio abbastanza oscuro.
Il mio imprinting musicale è molto vario, incentrato soprattutto negli anni ’90. Il presupposto da cui parto sempre è che la musica debba aggiungere qualcosa a quello che è già lì sullo schermo. Quindi mi sono chiesto: “Cos’è che manca, a questo film?”. E mi sono risposto che mancava proprio l’ebola, l’unica cosa che non si vede mai. E come tutto quello che non si vede, fa paura. Vale un po’ per tutte le malattie. La musica de “Lo Squalo”, ad esempio, rispecchia perfettamente quello che voglio dire: non lo vedi mai, se non alla fine, ma la colonna sonora ti dice che è lì. Quindi per me era fondamentale che questa tensione continua fosse incarnata dalla mia musica.
Tu di solito in che modo lavori a una colonna sonora?
La prima cosa che faccio, ancor prima di vedere il film, è farmi una bella chiacchierata col regista. Lui di solito ha già tutto in testa, comprese le musiche, solo che non essendo musicista ha bisogno di qualcuno che traduca quello che ha in mente. Per cui è fondamentale entrare nella sua testa! E’ la parte più interessante del mio lavoro. Infatti credo che si debba avere la sensibilità di capire quello che lui vuole, di cosa ha bisogno ma soprattutto che cosa sente. Trasformare quindi parole e immagini in suoni. Diventi un traduttore, praticamente. Poi, dopo il contatto col regista, mi guardo il film e lavoro sempre con le immagini, per fare in modo che la musica non ne sia scollata.
Quando hai capito di voler diventare un compositore?
Ovviamente io nasco come un musicista adolescente che, a 14 anni, ha la fortuna di vivere in una casa dove si ascoltava tanta musica, soprattutto Beatles e Pink Floyd. I miei genitori mi hanno sempre incoraggiato, mettendomi in mano uno strumento e dicendomi “vai”. E questa fortuna continuò quando, finito il liceo classico, dissi loro che non volevo stare sui libri ma studiare musica. E anche lì mi appoggiarono. Quindi l’importante è entrare in un percorso del genere. Poi strada facendo capisci quello che ti piace di più. Io compresi di voler fare il compositore di musica per immagini quando andai al Berklee College of Music di Boston per studiare e lì c’era la facoltà di Film Scoring. C’era ovviamente il corso di composizione, ma finalizzato alla produzione di musica per immagini. Così un giorno ci fecero vedere la scena di un film prima muta, poi con una musica, poi con un’altra e un’altra ancora e così via. Il film cambiava completamente di significato e io ne rimasi folgorato: la stessa scena faceva prima ridere, poi piangere, poi paura. Mi sono chiesto se davvero la musica avesse tutto questo potere! E sono entrato nel paese dei balocchi.
Le tue ispirazioni musicali quali sono?
I Pink Floyd sono il caposaldo. Poi, ecco, ho respirato la musica e i film degli anni ’80, ce li ho dentro e mi hanno lasciato il gusto per il pop. Anche i ’90, ovviamente, con tutta la scena grunge. Poi crescendo ho approfondito altre cose come Debussy o Ravel. Sono un bel pot-pourri di cose, insomma!

Quanto è stato importante il viaggio negli Stati Uniti, per la tua carriera di compositore? Cosa c’è di diverso dalla scuola italiana?
Intanto un ruolo molto importante in questa scelta ce l’ha avuto mio padre, che mi disse che se volevo fare musica, dovevo farla al meglio. Quindi trovare una scuola che mi permettesse di avere un lavoro una volta terminati gli studi. Purtroppo il Conservatorio questo ancora non lo permette, ha dei programmi che sono anni luce indietro rispetto agli Stati Uniti. Quindi mi sono informato e ho trovato una scuola che consentisse una preparazione a 360 gradi. Uno dei miei punti di forza sta in questo. Se qualcuno mi commissiona un lavoro, io gli consegno il prodotto finito, essendo in grado di registrarlo, produrlo e curarlo in tutti i passaggi necessari. Saper suonare uno strumento e scrivere bene la musica è solo il 40% del lavoro: è molto importante saperlo vendere, confezionare, arrangiare, missare. E negli States hanno questo tipo di approccio, cioè sanno che tu devi uscire come una sorta di One Man Band! Quindi impari soprattutto le tecnologie che ti permettono di diventarlo, ti relazioni a questo lavoro come un mestiere in cui ogni passaggio è fondamentale, non puoi trascurarne nessuno.