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#Intervista: Camilla Ancilotto e la sua arte da quintilioni di facce

Zebre che si sposano con ali. Che a loro volta si uniscono a una costola. Che poi prendono la forma di un volto. E subito dopo diventano il muso di una scimmia. Oppure fibre muscolari fatte da molluschi o da piume di uccello. È un’arte allucinatoria e potente quella di Camilla Ancilotto, brillante artista romana dal sangue svedese che compone opere mutevoli e proteiformi, eppure rigidissime, regolari e dritte nel loro surrealismo, arcimboldesche eppure manieriste. Lavori composti da prismi girevoli a 3 facce che danno vita di continuo a nuove rappresentazioni di opere che non sono mai le stesse perché, come un’installazione multimediale, si trasformano costantemente. Senza l’uso di pulsanti, led o schermi piatti, però: i suoi quadri vanno toccati, i pannelli di legno girati con le mani, le nuove figure create senza l’utilizzo di un supporto elettronico.
Ho incontrato Camilla pochi giorni fa nel suo studio dove sta mettendo a termine la serie dedicata allo shibari, l’antica arte giapponese che trae ispirazione dalle legature con cui anticamente venivano immobilizzati i prigionieri in Giappone, dando vita poi al kinbaku a partire dall’800 e caricato di valenze erotiche fino a sfociare in sinonimo di bondage. Ma per Camilla il significato di questa antica tecnica è assai diverso.

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Camilla Ancilotto

Camilla raccontami del tuo lavoro, del tuo approccio molto particolare all’arte.
Non faccio uscire nulla se non è perfetto. Fin dalla preparazione dei solidi di legno, tutti fatti a mano, carteggiati, stuccati con due o tre mani di cementite. Li assemblo, faccio un telaio provvisorio, faccio i disegni… Tutto a mano, non uso mai il pc. Per un’opera impiego in media tre mesi. La progettazione degli animali, ad esempio: devono funzionare armonicamente, non soltanto la forma ma anche il segno, il volume, il colore, il tono. Tutto richiede tantissimo tempo. Per quanto mi riguarda, finché non c’è un equilibrio armonico tra tutte le parti, l’opera non si può considerare finita e quindi non è pronta per essere esposta al pubblico.

Tu usi un tipo particolare di argentatura.
Sì. All’inizio è argento, ma piano piano prende colore e diventa caldo, diventa vivo. Uso una gommalacca particolare attraverso cui il colore cambia nel giro di qualche mese.

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“Dionysus”, 2016

È facile finire con la mente ad Arcimboldo, contemplando alcune delle tue opere.
Presto parteciperò ad “Obic”, una mostra curata da Gianluca Marziani, il quale mi ha chiesto un’opera che richiamasse il cibo e mi è venuta l’idea di fare un autoritratto arcimboldesco, appunto, che è anche un omaggio a Milano in vista della prossima triennale, dove verrà esposta. Un’opera contemporanea con l’aggiunta della natura morta. Quindi da una parte ci sono gli ortaggi e la frutta e dall’altra ci sono dei pesci. In un’altra, invece, che ho realizzato su commissione per la figlia di Piero D’Orazio, ho inserito tanti dolci. Perché insomma, non potevo mettere un pesce morto, per lei!

Da dove nasce il tuo approccio alla pittura?
Ho cominciato nel 1999, quando ho terminato la New York Academy of Art, l’unica scuola di quella città incentrata sullo studio della pittura tradizionale. È strano pensare di andare a studiare i maestri italiani a NY, ma considera che qui a Roma c’è sì un’accademia ma non un’istituzione di così alto livello. Mentre un master di due anni, lì, avrei voluto ripeterlo altre tre volte per quante cose ho appreso. Quindi il mio primo quadro a tasselli ruotati è stato di quell’anno, fatto per la mia tesi di laurea: una Venere reclina che si trasformava in pesce. Nessun altro al mondo lavora in questo modo, con i tasselli di legno che ruotano.

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“Nigredo”, 2017

Hai avuto qualche esempio di artista in famiglia a cui ti sei ispirata?
C’era mio nonno, anche se lo faceva per hobby e non per professione. Era molto bravo. Io però sono stata la prima a farne un lavoro: dopo 30 anni di studio e di pratica posso dire di essermi impegnata a fondo e di sapere quello che dico! Se consideri che ci sono artisti che fanno dei boom pazzeschi, tipo quelli della corrente inglese, che però non sanno tenere una matita in mano… Voglio dire: un vero artista, per come la vedo io, parte dalle basi tradizionali e poi si evolve, sintetizza quello che ha imparato e crea il suo stile. Come Picasso, ad esempio. Se uno parte direttamente dall’astratto, invece, per me è ridicolo.

Chi o che cosa c’è nei tuoi quadri?
Il cubismo, in qualche modo. Ma anche un certo manierismo. Ultimamente cerco di lavorare in modo un po’ più sintetico, provando ad essere meno descrittiva. E poi anche un tocco di surrealismo. In realtà, nel mio caso, si potrebbe parlare di “rettangolismo” o di “triangolismo”!

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“Nigredo” (dettaglio), 2017

Raccontami della tua ultima serie incentrata sullo shibari. Come nasce e perché.
Ho visto alcune immagini relative a quest’arte e mi sono innamorata della loro grazia. Trovo affascinante il concetto ma soprattutto le forme. Ne faccio un discorso più estetico e visivo e come dicevamo prima, ricorda un po’ il manierismo italiano visto in chiave contemporanea. Poi al di là dell’aspetto sessuale che può essere più o meno interessante per alcune persone, quelle immagini mi incutono un senso di pace, di equilibrio e serenità. Di libertà, soprattutto. Che poi è un controsenso, se pensi a queste persone legate… Per me però è così. L’ultimo lavoro della serie si intitola “Chrysalis” e volevo dare la sensazione di uscire appunto da un bozzolo, da una situazione di chiusura, per una di libertà, di vita. Una persona legata è in realtà qualcuno che torna alla vita, in qualche modo. Si libera e rinasce. Un paradosso. Forse il nome mi è venuto per questo motivo. Sarà una serie di tre o quattro opere tutte ispirate al tema del kinbaku (letteralmente “legatura stretta”). Verranno esposte l’estate prossima a Palermo per la prima volta nell’ambito di “Manifesta”, un momento importantissimo per l’Italia perché di solito questo evento veniva organizzato nei Paesi del nord Europa.

Come sta l’arte contemporanea in Italia, secondo te?
Ci sono tanti artisti che valgono. Purtroppo viene un po’ voglia di andare fuori perché certo, è piacevole sentirsi dire “che bei lavori, come sei brava!”, però poi alla fine… si vende poco. C’è anche tanta competizione visto che siamo parecchi e tutti vogliamo lavorare. Diventa complicato. Quando vai in altre città come New York o Londra, ad esempio, si vende di più: l’artigianalità, il talento, il gusto, la tecnica di pittura italiana vengono apprezzati di più.

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“Chrysalis”, 2017

Hai recentemente esposto a Spoleto. Com’è andata?
Molto bene! Era “Mutaforma” a Palazzo Collicola, curata sempre da Gianluca Marziani. Mi sono trovata benissimo con lui e lui con me, si è creata davvero una sinergia perfetta. Lì ho portato alcune opere realizzate appositamente per quello spazio ispirate al tangram (il rompicapo cinese), molto versatili che sono state apprezzate parecchio. Poi secondo me l’importante è crescere e maturare. In questo mi sento un po’ come i miei quadri: non sono ferma, statica. Mi piace interagire con il pubblico, con la vita.

Le tue opere sono interessanti anche perché sono “divertenti”. Quanto è presente il tema del gioco, nel tuo lavoro?
Il gioco è alla base dell’arte. Picasso diceva che per arrivare a dipingere come faceva, era dovuto tornare a pensare con gli occhi e la mente di un bambino. I piccoli sono i più creativi di tutti perché non sono condizionati. In realtà è un punto di arrivo, un cerchio che si chiude. Poi penso che le mie opere diano anche la possibilità a chi non è artista di esprimersi con l’arte, in qualche modo. Di creare delle composizioni.

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“Chrysalis” (studio), 2017

E quante è possibile crearne?
Dipende. Di solito sono quintilioni (un quintilione corrisponde a 1000 quadriliardi, ndr)! Ad esempio “Nigredo” ha 72 prismi e predispone quindi di oltre 2.2 quintilioni di possibili configurazioni, tutte perfettamente compatibili tra loro.

Santo cielo!
Sì, è una cosa complessa. Sono opere che se te le metti in casa non ti stufano mai. E tutto combacia sempre. Ma non solo con la forma, anche con volumi, toni e colori. Che è poi la parte più complicata. Per quello ci vogliono tanti mesi. Direi che è abbastanza machiavellico!

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Camilla al lavoro nel suo studio

Quante volte ritocchi i tuoi lavori?
Cerco di farlo il meno possibile perché la pittura ad olio poi si rovina quando ci lavori un po’ troppo sopra. Soprattutto per i ritratti, che hanno tre passaggi più i ritocchi. Già se applichi quattro passaggi, perdono aderenza e vivacità. Bisogna cercare di non lavorarci troppo. C’è un grande studio, sotto, perché tutto deve avere un senso. I disegni che faccio richiamano esattamente la morfologia umana.

E il pubblico come reagisce alle tue opere?
All’inizio devo spiegargli bene di che si tratta. Non comprendi di preciso finché questi lavori non li vedi e non li tocchi. Ho fatto anche dei video per cercare di essere più chiara. La prima impressione è più di un découpage, un astratto.

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“LLISSOS”, 2016

C’è un messaggio, dietro?
Un pensiero sotto c’è sempre. “Il Ratto delle Sabine”, ad esempio, è un’opera che richiama un pochino il tema della violenza sulle donne. Tutta la serie dei Marmi di Elgin è uscita fuori perché c’è stata la diatriba sul fatto che si trovano a Londra mentre dovrebbero essere in Grecia. Come dicevamo prima, non intendo mai l’arte come statica, ma come qualcosa che deve sempre essere in movimento. Poi sai, ognuno ci vede ciò che vuole. Le opere d’arte sono soggettive, chiunque può trovarci dentro qualcosa di sé.

La tua prossima mostra quando e dove sarà?
Aprirà presto una galleria nel centro di Roma, la Galerie Maison Naim, credo ai primi di dicembre, dove sarò la prima artista a esporre. In quella occasione porterò “Torso Nero” (2015), “Iris I e II” (due versioni con fondo blu e fondo bianco, 2016), “Dionysus” (2016), “Hermes” (2016), “Venere Reclina” (2016) e 4 teste di cavallo di Selene in vari colori (2017). In poche parole gran parte del corpo di lavoro ispirato ai marmi del Partenone (detti anche Marmi di Elgin, come dicevo poco fa) custoditi nel British Museum.

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The Parallel Vision ⚭ _ Paolo Gresta)

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